cronologia
tipologia tomba
ubicazione
posizione nell'edificio
Chiostro del Capitolo, lato sud.
autori
matriali e tecniche
Arcosolio dipinto nell’intradosso, pietra grigia scolpita, marmo.
stato di conservazione
note storico-critiche
Una prima testimonianza della presenza di questo sarcofago compare nel Libellus de magnificis ornamenti Regie Civitatis Padue scritto dall’umanista padovano alla corte estense, Michele Savonarola (Segarizzi 1902; Wolff 2002). Il testo databile tra prima e seconda metà del Quattrocento, indica il defunto come un luminoso professore del secolo precedente e pur descrivendo l’arca in maniera sommaria, la pone in quello stesso luogo dov’è visibile oggi. Manifesto il richiamo formale alle arche carraresi custodite oggi nella chiesa dei Santi San Filippo e Giacomo degli Eremitani, un modello per la scultura trecentesca settentrionale e dei territori legati alle sfere di influenza della Serenissima (Wolters 1974; 1984; Murat 2013); non per nulla, prima degli studi effettuati da Wolters sulla scultura gotica veneta, si tendeva a identificare l’autore di questo monumento nello stesso Andiolo De Sanctis, fuoriclasse veneziano più volte ingaggiato anche dai nobili padovani. Lo studioso, con tutte le limitazioni del caso e le problematiche riconducibili a una società o bottega di artisti, sottolinea certamente le vicinanze alla cultura andriolesca e una medesima maestranza rispetto alla tomba di Giovanni della Scala in Santa Maria Antiqua di Verona, ma esclude il coinvolgimento diretto del veneziano Andriolo nella realizzazione. Una bottega terribilmente affaccendata, colma di scadenze e ritardi nelle consegne per cui, come indicato da principio nei saggi di Wolters e successivamente ribadito da Cavazzini, le stesse grandiose tombe dei signori Da Carrara, al di fuori dell’apparato pittorico, non videro la solo maestranza orbitante attorno ad Andriolo impegnata nel progetto decorativo (Wolters 1974; Cavazzini 2013). Il monumento di Raniero, certamente compromesso rispetto alla sua ideazione originaria, è composto da un arco a sesto acuto modanato sotto il quale è posto il sarcofago a nicchie tripartito frontalmente. Nello scomparto centrale, l’edicola aggettante è abitata dalla Vergine incoronata e seduta in trono, con il Bambino tra le braccia oggi mutilo della mano benedicente e danneggiato nel volto. La struttura in cui è posta la Madre di Dio ibrida un’absidiola con calotta a conchiglia e un trono; il riferimento a De Santi si fa molto stringente se si confrontano le diverse Madonne attribuite a lui e alla sua cerchia, in particolare quella della collezione Morelli di Firenze resa nota per la prima volta da Zuleika Murat (Murat 2013) e da cui è deducibile un modello comune a questa per Raniero. Nelle altre due nicchie in posizione angolare sono collocate a sinistra la figura di sant’Antonio, mentre compare sulla destra un’altra effige di Maria. Come si può intuire dal saluto della Vergine, la disposizione non è coerente e al posto del santo francescano, a completare visivamente la scena doveva trovare posto l’arcangelo Gabriele annunciante. Antonio avrebbe dovuto popolare uno degli spazi verso la parete di fondo che oggi risultano invece vuoti. Tutte le cinque calotte, aggettanti rispetto al sarcofago, portano nel loro spessore un importante fregio fogliato che, assieme a una modanatura piatta senza alcun accenno decorativo, fungono da base alla pietra tombale in cui è presentato il gisant scolpito del defunto. L’effigiato, dal volto disteso, porta vesti dalla tipica foggia dell’uomo dedito all’esercizio della legge, abbigliamento individuabile in molteplici tombe nelle immediate vicinanze; ciò che è veramente inusuale e caratterizzante è scolpito ai piedi del trapassato: poderosi volumi puntigliosamente rifiniti indicano per la prima volta qui al Santo la professione di docente (Tomasi 2021). La notevole aggiunta alla rappresentazione del dotto sarà riproposta nelle quattrocentesche tombe Fulgosio, Zabarella e Buzzacarini subendo infine un tracollo con la realizzazione del busto di Lazzaro Bonamico nel Cinquecento. Sotto l’arca scolpita è ben visibile la dedica al defunto posta tra le due massicce mensole decorate con i medesimi motivi vegetali del sarcofago e poggianti a loro volta su teste leonine finemente lavorate. Lo spessore dei modiglioni ospita inoltre i blasoni familiari in cui è ancora largamente presente il pigmento azzurro usato per campire la superfice liscia dello scudo, ma senza dubbio la parte pittorica più significante, seppur scarsamente leggibile, è quella posta nel sottarco dove corrono quattordici tondi con santi – o profeti – reggenti cartigli srotolati. Dal recente intervento conservativo è emerso come un’originaria tessitura cromatica e una doratura su ampi tratti delle superfici dovesse accompagnare l’intero monumento. Nella parte frontale dell’arco acuto, il perimetro dell’estradosso, supportato da peducci dalle medesime fattezze delle mensole, è occupato esternamente da cornice a dentelli e profilato da foglie carnose. Tra gli innumerevoli elementi dispersi già segnalati, va aggiunta anche la lapide di Caterina della Bonelda (Gonzati 1853), nuora di Raniero in quanto moglie di Argentino e sepolta fino alla metà del diciannovesimo secolo ai piedi dell’arcosolio. Un’ultima osservazione va effettuata per la parete di fondo, oggi completamente liscia, ma sulla quale era posta una finestra, ampiamente visibile nelle foto Alinari scattate tra il 1881 e il 1887 e in quelle utilizzate e pubblicate nel saggio di Wolters (Wolters 1974).
bibliografia
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