cronologia
tipologia tomba
ubicazione
posizione nell'edificio
Secondo pilastro di sinistra, rivolto verso l’abside.
autori
matriali e tecniche
Pietra, inserti di marmi mischi arancioni e neri.
stato di conservazione
note storico-critiche
Il cenotafio si presenta come un’edicola di gusto ormai totalmente seicentesco. Vige certamente un equilibrio cromatico dato dall’alternanza delle due tonalità degli inserti marmorei, ma gli elementi aggettanti, la commistione degli ordini, le decorazioni a bassorilievo che profilano interni ed esterni, la trabeazione spezzata con le vittorie alate porta corone, contribuiscono ad affastellare e comprimere lo spazio creando un ritmo incalzante. È possibile dividere il monumento in due sezioni, sia orizzontalmente che verticalmente: nel primo caso è la trabeazione su cui poggia la mensola reggibusto a delimitare gli spazi, mentre nel secondo è tutta la compagine delle superfetazioni a creare ben precise demarcazioni. Il primo dei due elementi focali, ovvero la pietra nera centrale, ospita la dedicazione al defunto ed è racchiusa in inserti marmorei arancioni e semicolonnine lisce in marmo con capitelli corinzi. Lateralmente compaiono pilastri ribattuti con capitelli dello stesso ordine di quelli rilevati e susseguentemente, nello spazio di ricavo tra i bassorilievi e le colonne perimetrali di marmo arancione, scendono due festoni scolpiti retti da teste leonine. In motivi alternati si vedono frutti e taccuini, o pergamene, legati assieme che scendono fino allo stilobate. L’asse di elementi rilevati che parte dai modiglioni decorati con melagrane e spighe giungendo alla trabeazione, continua anche al livello superiore prolungandosi fino alla cornice dentellata retta da pilastrini intarsiati. Questi ultimi fungono da elementi angolari di un attico in cui l’effige del defunto è elemento cardine. Selvatico è ritratto in un farsetto ben abbottonato al di sotto della giacca con stola di pelliccia e porta, ben visibile anche per la differente trattazione cromatica, la catena con leone in moeca simbolo della creazione a cavaliere di San Marco. Un oggetto sfoggiato anche nelle rappresentazioni del padre e del fratello di Giovanni Battista. Perimetralmente il cenotafio ha elementi di dimensioni doppie rispetto a quelli interni e variano oltre che per la ponderata scelta cromatica del marmo, per il lessico architettonico con il quale sono espressi: non più corinzio, ma ionico. Le suppliche per l’innalzamento del monumento dedicato a un esponente tra i più illustri della famiglia Selvatico, grandiosi mecenati del diciassettesimo secolo, sono state rintracciate da padre Sartori. I supplicanti furono gli appartenenti alla Nazione Germanica, ma non vi è alcuna traccia dell’autore. L’appartenenza ultramontana era segnalata anche dall’aquila bicipite già rimossa nell’Ottocento, ma che Gonzati informa essere stata a coronamento di questo apparato, come per quello dirimpetto dedicato a Descalzi (Gonzati 1853). Le somiglianze con il ductus dello scultore padovano Cesare Bovo sono decisamente importanti; la presenza di questo scultore, lapicida, bronzista, copiosamente impegnato nei cantieri padovani durante i primi decenni del secolo (Siracusano 2013) come collaboratore degli artisti della famiglia Albanese e nei progetti dell’architetto Vincenzo Dotto, sarebbe pienamente giustificabile tenendo conto della dimestichezza che i giuristi tedeschi ebbero con lui: la memoria per Cristoph IV von Dohna, quella per Samuel Geusuf, per Phillpp Ludwig von Pappheim e per Ottonello Descalzi, tutte all’interno del Santo erano state commissionate a lui. Per quanto riguarda la realizzazione, sicuramente meno felice rispetto ai precedenti elencati, bisognerebbe invece riflettere sull’avvicendamento tra padre e il figlio, Giacomo, che proprio in quegli anni gli si accostava. Pur con queste premesse, nessun documento giunge a supporto di un tale indirizzo e l’opera risulta oggettivamente appartenere a un maestro che, al di fuori dell’ombra autoriale, percepisce ben più che nei precedenti monumenti tedeschi l’inoltrarsi del secolo. Gli strascichi del modello tardo cinquecentesco non sono certo svaniti, ma un certo fremito, un sorpasso definitivo rispetto alla sobrietà caratteristica dei primi anni del Seicento sono evidenti.
bibliografia
Angelo Portenari, Della Felicità di Padova, Pietro Paolo Tozzi, Padova 1623, p. 241; Nicolai Comneni Papadopoli Historia Gymnasii Patavini, Sebastiano Coletti, Venezia 1726, p.262; Angelo Bigoni, Il Forestiere istruito delle meraviglie e delle cose più bella che si ammirano internamente ed esternamente nella basilica del gran Taumaturgo S. Antonio di Padova, Stamperia del Seminario, Padova 1816, 76-77; Bernardo Gonzati, La Basilica di S. Antonio di Padova descritta ed illustrata, Voll. II, Coi tipi di Antonio Bianchi, Padova 1852-1853, vol. II, pp. 258-259; Alessandra Franceschi, I Selvatico vicende familiari e patrimoniali, «Padova e il suo territorio» , XX(2005), 116, pp. 4-7; Luca Siracusano, Scultura a Padova 1540- 1620 circa, Monumenti e ritratti, XXVI ciclo della scuola di dottorato in Studi umanistici dell’Università degli studi di Trento, supervisore Professore Andrea Bacchi, Trento 2013, pp. 277-283; Monica De Vincenti, Simone Guerriero, Monumenti sepolcrali del Seicento, in La pontificia basilica di sant’Antonio in Padova, a cura di Luciano Bertazzo, Girolamo Zampieri, L’Erma di Bretschneider, Roma 2021, pp. 1397-1458: p. 1403.