FERRARI OTTAVIO

biografia

Nato a Milano il 20 maggio 1607 (Gonzati 1853; Piovan 1996) venne affidato, dopo la precoce morte del padre, alle cure dello zio Francesco Bernardino Ferrari: bibliotecario, archeologo ed erudito gravitante attorno a Federico Borromeo. Ottavio ricevette dunque la prima educazione nel seminario maggiore di Milano e qui diede prova di grande capacità negli studi umanistici, tanto che il cardinale milanese lo ritenne già pronto per la cattedra di retorica del seminario all’età di ventuno anni. Nel 1629 divise gli impegni pedagogici tra Seminario Maggiore e Seminario Elvetico, fondato proprio dal cardinale Borromeo, per preparare al meglio i futuri sacerdoti svizzeri nella difesa dell’ortodossia cattolica romana; lo spessore dell’allora ventiquattrenne Ottavio Ferrari fu tale che, con deroga alla regola del compimento dei trent’anni di età, si decise di aggregarlo al Collegio Ambrosiano. Nel 1634, ormai celebrità internazionale, venne ingaggiato dall’Università di Padova per ricoprire il ruolo di professore di Umanità latina con stipendio annuo di 450 fiorini e inoltre, per appianare ogni possibile diniego, lo Studio si offrì di pagare ogni spesa relativa ai disagi del trasloco dalla città di Ambrogio a quella di Prosdocimo. Tenne questo ruolo fino al 1639, anno in cui dovette raddoppiare gli insegnamenti in quanto scelto come sostituto per la cattedra del defunto fra Giuliano Rizzi, che teneva lezioni di Umanità greca. Costanti e cospicui aumenti salariali lo portarono a percepire 2000 fiorini d’oro e ciò dimostra l’enorme apprezzamento e la cura che la Repubblica ebbe nei confronti di questo erudito. Nel clima culturale padovano, Ferrari poté completare e pubblicare i suoi scritti letterari e storico-archeologici, venne associato all’accademia dei Ricovrati e in aggiunta ai pressanti ruoli di docenza, fu utilizzato anche come bibliotecario dello Studio; una mansione ricoperta fino ad allora da Alessandro Singlitico. Le sue occupazioni non si limitarono alla Repubblica Veneta, infatti, in seguito alla morte dello storico Giuseppe Ripamonti, nel 1651 gli venne affidato dal Senato milanese l’incarico di cronista pubblico, ma constatata la difficoltà nel reperire informazioni e documenti, essendo per altro stipendiato da uno Stato straniero a quello milanese, si dimise. Fu ricercato anche da coronati come Caterina di Svezia e Luigi XIV di Francia, mentre politici di primissimo piano come Colbert chiesero e ottennero suoi servigi e consigli; localmente lo stesso Gregorio Barbarigo lo interpellò sulla qualità degli insegnamenti da adottare nel seminario padovano che stava prendendo nuovo slancio proprio grazie alle cure del vescovo cardinale. La sua ricca e prolifica vita finì tra il 7 e l’8 marzo 1682, venne sepolto nella tomba da lui stesso commissionata nella chiesa di Ognisanti mentre nel 1684 il nipote Giulio volle glorificarlo pubblicamente nel pantheon cittadino della chiesa di Sant’Antonio.

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cronologia

tipologia tomba

posizione nell'edificio

Navata di destra, parete esterna tra la cappella di Santa Chiara e quella dei Santi Giacomo e Felice.

matriali e tecniche

Marmo bianco, marmo nero, intarsi in metallo brunito.

iscrizioni

stato di conservazione

note storico-critiche

quest’opera venne aspramente giudicata da Gonzati nel suo capitale libro sulla basilica del Santo (Gonzati 1853) tanto che, prima di descriverne formalmente le caratteristiche, marchiò l’intero Seicento artistico con parole di fuoco. La trattazione del materiale lapideo, specialmente nel Mercurio e nei volti dei personaggi, è un effettivo limite alla lirica e fastosa macchina scenica (Brandolese 1795). Anche nella più recente letteratura (De Vincenti, Guerriero 2021) il cenotafio Ferrari è indicato come «uno degli esempi più scadenti della plastica veneta del Seicento». Si presenta come una costruzione dal moto piramidale, pensata sui valori cromatici del marmo bianco e nero con qualche inserto metallico brunito; il movimento e la leggiadria dovrebbero essere accentuati dalla discesa sui lati di un tendaggio, purtuttavia l’effetto è maldestro e le finte pieghe del panno donano effetti chiaroscurali pesanti che soffocano maggiormente la composizione. Alla base sono poste le raffigurazioni di Sapienza, sulla sinistra, e Virtù, sulla destra, che schiacciano rispettivamente Ignoranza e Invidia (Gonzati 1853; Semenzato 1984; De Vincenti, Guerriero 2021) mentre portano sulle spalle, aiutandosi con un braccio, la cornice marcapiano che separa la base dal resto della costruzione. Nessuna tensione si manifesta sul volto o nei gesti delle due personificazioni, viceversa, uno sforzo sovrumano e definiti fasci muscolari dai deltoidi ai flessori evidenziano la pesantezza dell’architettura che le sovrasta. La parte più aggettante della base, confinata tra queste due sculture, mostra la dedicazione al defunto su marmo nero che finge una coltrina di velluto trattenuta e arricciata a partire dagli angoli grazie a una coppia di fiocchi bianchi dal bottone dorato. Questi inserti si collegano al livello sovrastante grazie allo svolgersi di un nastro annodato a due teschi che, a causa delle asole formate sopra la calotta, ricadono come orecchioni da lepre, facendo perdere il connotato conturbante del memento mori. Al livello superiore si dispiega tutto il resto del monumento: un piedistallo in marmo nero sui quali sono collocati, al centro, due putti speculari che reggono un’urna, lateralmente Minerva e Mercurio che ruotando sul loro asse innalzano una ghirlanda contenente l’effige a mezzobusto del Professore. La zona apicale è occupata da un angelo in cui è più marcatamente ravvisabile la goffaggine del lapicida: la veste rassomigliante cartapesta è ben fissa sulla destra, gli arti sono malamente proporzionati e abbozzati e le ali dispiegate che richiudono l’opera hanno tutta la pesantezza della lamina con le quali sono lavorate o rivestite. A causa di un’errata conoscenza dei gradi di parentela della famiglia Ferrari e della difficoltà nell’interpretazione della dedica sul piedistallo del cenotafio, la chiosa finale P.B.M.P era sciolta, fino all’ultimo decennio dello scorso secolo, come «patris bonae memoriae posuit» e non con il corretto ‘patrui’ ovvero zio (Piovan 1996). L’opera era dunque ritenuta una commissione del figlio di Ferrari, ma il Professore qui effigiato non prese mai moglie né ebbe figli, quantomeno riconosciuti e dunque, come attestano anche note d’estimo di mano di Ferrari stesso, l’erede e committente del cenotafio del Santo fu il nipote Giulio. L’autore, di non felice maestria, rimane sconosciuto mentre l’effigiato proprio in virtù della sua grande abilità oratoria fu più volte interpellato come creatore di versi dedicatori per illustri colleghi e nobiluomini qui sepolti. Gonzati (Gonzati 1853) indica come sue le iscrizioni per il conte Giovanni de Lazzara, Joahann Georg Wirsung, Giandomenico Sala, Pietro Sala, per Johann Wesling e per il frate Lodovico Majolo.

bibliografia

Pietro Brandolese, Pitture, sculture architetture ed altre cose notabili di Padova nuovamente descritte, Pietro Brandolese librajo, Padova 1795, p. 28; Bernardo Gonzati, La Basilica di S. Antonio di Padova descritta ed illustrata, Voll. II , Coi tipi di Antonio Bianchi, Padova 1852-1853, vol. II, p. 306- 308; Camillo Semenzato, Il secolo XVII: tombe e cenotafi, in Le sculture del Santo di Padova, a cura di Giovanni Lorenzoni, Neri Pozza Editore, Vicenza 1984, pp. 173-192: pp. 190- 191; Francesco Piovan, Ferrari Ottavio , in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 1996 , vol. 46, pp. 643-646; Monica De Vincenti, Simone Guerriero, Monumenti sepolcrali del Seicento, in La pontificia basilica di sant’Antonio in Padova, a cura di Luciano Bertazzo, Girolamo Zampieri, L’Erma di Bretschneider, Roma 2021, pp. 1397-1458: pp. 1440-1441.

autore scheda

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