TROMBETTA ANTONIO

biografia

Antonio Trombetta, figlio di Pietro, nacque a Padova nel 1436 in una famiglia di modeste condizioni economiche e vestì il saio francescano dopo il 1451. La prima attestazione tra le mura del convento antoniano della città attualmente rinvenuta (Luisetto 1983) porta la data del 1459 e lo identifica come organista; conseguì la laurea in teologia il 2 giugno 1467 ed entro lo scadere del decennio ottenne la cattedra di metafisica del convento. Nel volgere di poco tempo gli incarichi si moltiplicarono: assunse il ruolo di docente per la medesima disciplina nel monastero di San Benedetto, a Santa Maria in Vanzo e dal 1476 nell’Università di Padova in sostituzione dell’agostiniano Thomas Penket tornato in Inghilterra dopo due anni di insegnamento. Si trovò quindi ad essere concorrente dall’approccio scotista del celebre tomista domenicano Francesco Securo di Nardo (Lodone 2020). Nello stesso anno in cui cominciava a muoveva i suoi passi nello Studio patavino, diede l’avvio alla carriera interna all’ordine francescano, in un periodo di forti turbolenze nella religiosità europea e preludio di una spaccatura insanabile, nonchè di corpose spinte all’interno dello stesso ordine dei minori. A partire dall’assunzione del ruolo di custode provinciale, Trombetta divenne custode d’Oriente e, per tre mandati (Poppi 2021), ministro della Provincia del Santo. Una perseverante volontà di controllo lo resero indigesto a molti, tanto che Egidio Delfini una volta eletto quarantesimo Ministro Generale nell’anno 1500, grazie all’appoggio di papa Alessandro VI, lo rilevò dal ruolo collocando al suo posto Giacomo Stella. Un frate, quest’ultimo, che venne apertamente rifiutato dalla comunità padovana che avrebbe dovuto amministrare (Poppi 2021). Gli scontri portarono Trombetta a Perugia dove, sostando prima di raggiungere l’Urbe per chiedere udienza e difendere il proprio operato, venne trattenuto contro la sua volontà. Il rilascio dalla cattività giunse solo grazie all’intercessione del Senato veneziano e il frate si trovò comunque costretto al ritorno nella città natale. Nell’anno 1503 il clima, se possibile, esacerbò ulteriormente poiché credendo che Delfini fosse morto, il professore brigò affinché fosse scelto come nuovo vertice per l’Ordine minore. Il Generale, godendo invece di discreta salute e venuto a conoscenza di questa nuova offesa, lo iscrisse in una lista di proscrizione dall’esplicativo titolo di «Fratres rebelles religionis». Nonostante i molteplici fardelli e impegni nell’amministrazione – o meglio controllo (Poppi 2021) – dell’Ordine, gli accidenti politici e tra questi la guerra di Cambrai, le innumerevoli pubblicazioni e consulenze, Trombetta detenne la cattedra di filosofia dello Studio di Padova fino al novembre del 1511. A questa data corrisponde l’allontanamento dalla città del Santo essendo stato scelto da papa Giulio II come nuovo vescovo d’Urbino. Ormai ottuagenario nel 1514 si dimise dal suo ruolo di guida della diocesi urbinate e a sigillare l’alta stima di cui godette anche presso il nuovo papa Leone X, venne creato arcivescovo di Atene. Tornato stabilmente a Padova vi morì il 6 marzo 1517.

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cronologia

tipologia tomba

posizione nell'edificio

Controfacciata, pilastro di sinistra, rivolto verso l’altare della Madonna del Pilastro.

matriali e tecniche

Marmo grigio, marmo grigio lucidato, pietra d’Istria, bronzo.

iscrizioni

stato di conservazione

note storico-critiche

L’opera è posta sul pilastro di controfacciata dinnanzi all’altare dedicato alla Vergine ed è una bella commistione di marmo grigio, pietra d’Istria e in alcune parti, pietra d’Istria lavorata prendendo a prestito la tecnica orafa del niello; commistione rara, ma che entrava nella decorazione scultorea veneta già a partire dalla seconda metà del quindicesimo secolo (De Gramatica 2001). Questa raffinata architettura dal sapore classico, si innesta su delle lastre di marmo dalle venature scure creando un importante contrasto cromatico grazie al bianco della pietra scolpita e al nero lucente del bronzo o degli inserti in piombo e argento. L’intero monumento è sezionabile in quattro livelli orizzontali. Alla base due putti fitomorfi e cingoli francescani con nappe inquadrano delle pergamene rilevate portanti il blasone del Trombetta; il secondo livello, ovvero la parte inferiore della composizione architettonica, si distacca dalla parte sottostante grazie alla finzione di una balaustra tripartita in cui ogni sezione porta una coppia di piccole paraste ioniche rilevate nelle estremità. Al centro è posta la dedicazione, più aggettante rispetto agli altri elementi, in asse con il blasone di Trombetta e subito al di sotto dell’effige del commemorato. Elemento focale e protagonista della macchina scenica è il bronzo con le sembianze di Antonio Trombetta, presentato nel suo saio, magro, dal portamento fiero e tranquillo, con zigomi ben definiti e mani nodose dalle lunghe dita; un ritratto che ha un immediato precedente nel volto bronzeo rinvenuto da Warren nella Wallace Collection (Warren 2017) e che ha portato Avery a richiamare il tipo del san Francesco di Donatello per l’altare della basilica (Avery 2001). Il frate regge saldamente con la mano sinistra un libro schiacciandolo a sé, mentre la destra poggiata sotto lo sterno lo indica; il saio e le pieghe creatisi con questi innocui movimenti dimostrano tutta la maestria del fonditore e la sensibilità orafa del Riccio: la veste è un vero panno pesante, austero e imperturbabile, una materia non rifinita, ma percossa e picchiettata quasi un’estensione della dimensione psicologica del suo indossatore. Gli sbalzi si formano solo per la necessità dei movimenti: sulle lunghe maniche si affastellano ritmicamente, il cappuccio disteso attorno al collo forma un’unica mareggiata mentre grandi avvallamenti nascono per lo stringere del testo sul ventre. L’effigiato si staglia sul mondo dei vivi da una balaustra ideata da Vincenzo Grandi dove le parti laterali dell’affaccio sono ricoperte dagli strumenti di lavoro: libri con borchie e graffe, posti di taglio, adagiati di piatto, di costa. L’affastellarsi di oggetti forma, sulla parte destra, il piedistallo per un globo mentre sul lato sinistro sono la base per una clessidra finemente intagliata, ma alla cui sommità, neanche a dirlo, è adagiato un libriccino. La tripartizione è perfettamente seguita anche su questo terzo livello in cui l’altezza è però raddoppiata; le piccole paraste inferiori mutano in pilastrini sorreggenti la modanatura marcapiano e un cornicione sul quale si innesta un arco a tutto sesto. Il quarto livello vede il restringimento della superfice marmorea che diviene ora un triangolo isoscele al cui centro campeggia l’arco decorato a niello, medesima tecnica usata per saturare tutte le altre specchiature interne agli elementi architettonici. Ai lati e poggianti sul marcapiano inferiore, due volute accompagnano l’innalzarsi e il chiudersi della composizione. Al loro interno i motivi fogliacei irrompono col nitore della pietra dalla scura superfice di piombo e argento. Un’ultima cornice modanata è l’epilogo dell’opera: due foglie speculari dalle quali germogliano volute con ritmo e decoro identici alle inferiori, reggono un vaso rudentato contenente un teschio. Nonostante la magistrale lezione degli artisti coinvolti, non esiste un perfetto amalgama tra fusione e parti scolpite e la percezione complessiva non ha quell’equilibrio raggiunta invece da Vincenzo Grandi nelle opere successive, tuttavia, il peso che questa prima tomba cinquecentesca all’interno della navata del Santo ebbe sulle successive fu enorme. In virtù della fama goduta in vita dall’arcivescovo di Atene, gli spazi immediatamente prossimi alla sua tomba vennero eletti dai posteri come luogo di dedicazione per i frati filosofi dell’università di Padova mentre il modello, erede di un’iconografia già secolare, divenne canonico per i docenti dello Studio almeno fino alla metà del Cinquecento. Il principio dell’opera è datato 9 ottobre 1521 e vede i massari dell’Arca di Sant’Antonio e magister Vincentius lapicida (Carrington 1996; De Grammatica 2001) accordarsi per l’innalzamento del deposito dinnanzi all’altare della Madonna del Pilastro, luogo particolarmente amato e scelto dal defunto stesso che in vita lo fece restaurare arricchendolo con le sue insegne e una volta morto lo aveva beneficiato con un lascito. Il compenso iniziale pattuito con Vincenzo Grandi fu di ottanta ducati d’oro e parrebbe essere stato il primo impegno che lo vide all’opera come maestro autonomo e non più come apprendista del fratello Gianmatteo (Rigoni 1970); la collaborazione familiare rimase comunque in essere, tanto che Gianmatteo si sottoscrisse nello stesso giorno in altri contratti (Rigoni 1970; Carrington 1996). Debiti non soluti dai massari verso i due scultori si ritrovano almeno fino alla data 14 gennaio 1525. Nonostante le scoperte di Erice Rigoni, la critica reputava che il complesso fosse stato interamente progettato da Andrea Riccio, ma l’evidenza dei documenti dimostra che l’avvento di quest’ultimo è di molto successivo all’ingaggiato dei Grandi e dunque mentre la composizione generale spetta a Vincenzo (De Grammatica 2001), al bronzista appartiene il solo getto del mezzo busto. L’Arca si rivolse a uno dei più grandi specialisti allora esistenti in una città che allora era punto di riferimento per la toreutica; Andrea Briosco, erede e discepolo di Bellano aveva suscitando profonda ammirazione e meraviglia nello stesso Trombetta durante il suo guardianato nell’Arca del Santo grazie al progetto per il colossale candelabro pasquale, capolavoro dell’artista custodito ancor’oggi in chiesa (Siracusano 2021); a segnalare i rapporti tra i due va aggiunto anche il ritratto recentemente attribuito da Warren e appartenente alla collezione Wallace (Warren 2017). La data riportata nella stipula tra Briosco e i massari dell’Arca per la fusione è del 3 gennaio 1522 e la somma pagata ammontò a cinquanta ducati d’oro, una cifra di cui ancora nel 1524 è segnalato un cospicuo debito nei confronti dell’artista pari a cento ventotto lire. Insolventi furono anche i nipoti del docente, Sebastiano Pagliarini prete a Castelfranco e Nicolò Pagliarini arciprete a Montagnana, che avrebbero dovuto collaborare con un esborso di quaranta ducati d’oro. Il primo, che mai rispettò i termini sottoscritti, venne sospeso dal vescovo di Padova per ben due volte di cui l’ultima 1525.

bibliografia

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